Articoli su Giovanni Papini

1982


Francesca Petrocchi D'Auria

Papini e la presenza politica in «Lacerba»

Pubblicato in: Studi Novecenteschi, vol. 9, fasc. 23, pp. 5-43
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Data: giugno 1982



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   Il 15 agosto 1914, poco più di due settimane dopo la dichiarazione di guerra dell'Austria contro la Serbia, Papini annuncia, con un corsivo d'appoggio al suo articolo Il dovere dell'Italia 1 ampiamente censurato, una svolta decisiva all'interno della rivista: «“Lacerba” sarà soltanto politica [...] riprenderemo la nostra attività teorica e artistica a cose finite» 2.
   Quasi un anno trascorrerà dalla dichiarazione papiniana all'ultimo numero di «Lacerba» del 22 maggio 1915, giorno in cui viene ordinata la mobilitazione generale: in questi mesi, drammatici e convulsi per le vicende interne e internazionali, e per le coscienze dei politici e degli intellettuali italiani, sia per tutte le componenti sociali del paese, «Lacerba» svolge un'intensa e appassionata propaganda interventista, di ampio raggio, con un'attenta, sia pur molto personale e irruente, partecipazione al dibattito sulla scelta italiana nel conflitto mondiale.
   Pur permettendo di isolare alcuni temi «base», centrali dell'interventismo (lo spirito antitedesco, anti-neutrale, il mito della guerra come momento necessario ed estremo di unità nazionale, ed al tempo stesso la guerra come possibilità effettiva di un capovolgimento, o di cambiamento radicale nella struttura politica del paese, come ultimo colpo da assestare al già «debole» e «logoro» stato liberale), temi appunto presenti largamente nei settori interventisti in quel momento, è necessario però sottolineare come in «Lacerba» la svolta dell'agosto 1914 verso un impegno serrato e chiaramente politico


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compiuta da intellettuali fino a quel momento operanti soprattutto sul piano teorico e artistico rappresenti un'effettiva e sotterranea ripresa della «lezione» vociana (e vedremo in che senso) e al tempo stesso un'accentuazione, sempre più marcata, del distacco del gruppo cosiddetto «toscano» dal futurismo marinettiano.
   Il problema non è solo quello di una lettura attenta della polemica interventista così come viene ad attuarsi negli ultimi mesi di «Lacerba», ma piuttosto quello di verificare in che misura la nuova fisionomia della rivista («politica» e interamente gestita dai «toscani») possa in qualche modo rappresentare una diversa impostazione di quelle problematiche d'avanguardia che su un piano generale avevano trovato consenzienti i «milanesi» marinettiani e gli ex-vociani «toscani», ma che attraversò un complesso e vivace dibattito teorico avevano determinato non solo esiti diversi o comunque «particolari», quanto piuttosto un ripensamento generale e definitivo di esse stesse 3.
   Seguendo un piano di lettura strettamente cronologico e attento al cammino interno della frattura o dell'incompatibilità dei due gruppi, si potrebbe obiettare che Il cerchio si chiude 4 di Papini, Il cerchio non si chiude 5 di Boccioni, e la risposta papiniana Cerchi aperti 6, primi e significativi segnali d'una ormai evidente inconciliabilità, appaiono in «Lacerba» nel febbraio-marzo 1914 e che, comunque, i drammatici fatti scaturiti dopo l'eccidio di Sarajevo (28 giugno 1914), le immediate polemiche sulla sorte della triplice e sul comportamento del nostro paese nei confronti degli alleati,


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costituirono e costituiscono fattori «esterni» di così profonda risonanza da non poter non essere scatenanti nel gruppo d'avanguardia costituitosi intorno alla rivista. In realtà, se le incompatibilità e la collaborazione tra l'avanguardia toscana e quella marinettiana, sul piano teorico e artistico, hanno radici profonde e lontane, conoscono momenti di appianamento o di contrasto deciso, la «funzione» sul piano politico dell'avanguardia che entrambi i gruppi teorizzano (e dall'inizio ancor prima dell'incontro su «Lacerba») è, a nostro avviso, assolutamente diversa.
   È necessario quindi ripercorrere ed analizzare, sia pure per grandi linee, in che misura e attraverso quale iter filosofico-politico il movimento marinettiano si sia posto il problema politico-sociale, come movimento d'avanguardia, sin dal primo sorgere; anche se non va dimenticato che non solo le teorizzazioni politiche del gruppo marinettiano seguono da vicino il processo elaborativo e di trasformazione delle istanze teorico-artistiche del movimento che partono da una fase di disgregazione e di enunciazione violenta, per passare poi ad un'organizzazione più corretta e organica a livello degli «esiti» artistici; ma che soprattutto il disegno politico futurista risente, sia pur in modo molto particolare, come vedremo, delle vicende storiche e sociali dell'Italia di quel tempo.
   Potremmo intanto affermare che la necessità di concretizzazione avvertita da Marinetti dopo la fase violenta e distruttiva degli anni iniziali, necessità verificabile all'interno di tutto il gruppo sul piano figurativo e culturale in generale, trova nel Programma politico futurista 7 un ulteriore momento di convincimento. In occasione delle elezioni politiche del 1913, Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, pur riprendendo idee centrali già espresse nel primo manifesto politico del 1909 8 «invero elementare e sommario» 9 tutto


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teso ad esaltare «l'orgoglio, l'energia e l'espansione nazionale» 10 e animati dal nazionalismo già proclamato in occasione della guerra di Libia, programmano un inserimento «rivoluzionario» del movimento all'interno della società del loro tempo: società che da un lato, per note ragioni, respingono, e a cui però, al tempo medesimo, non possono non guardare con attenzione attraverso proprio una sorta di «filtro» futurista.
   I futuristi avvertono cioè di trovarsi di fronte ad una società in trasformazione, grazie alla rivoluzione industriale operatasi in quegli anni, e anzi non mancano di chiedere con enfasi che il processo di industrializzazione sia più totale, che il culto del progresso scientifico e tecnologico distrugga definitivamente l'anima «passatista» e inerte dell'«italietta» del tempo.
   Il Programma politico del '13 offre quindi la dimensione reale della portata teorica e delle intenzioni concrete del futurismo politico anteguerra, e mostra quanto esse siano strettamente legate al nucleo teorico centrale del movimento. Il Programma nasce infatti con la precisa volontà di operare un mutamento di sensibilità all'interno della società italiana e di incanalarla, attraverso i telegrafici ma dinamici, aggressivi, dissacranti punti indicati, verso una nuova consapevolezza della forza interna che pur possiede, da indirizzare primariamente verso i due blocchi di potere, il «clerico-moderato-liberale e il democratico-repubblicano-socialista) 11. Ci troviamo così di fronte, nel Programma, ad una scomposta presenza di motivazioni e di proposte, sul piano politico, difformi: «difesa del proletariato» 12 ed «espansionismo coloniale» 13, «moltissimi agricoltori, ingegneri, chimici, meccanici e produttori di affari» per favorire,


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attraverso una politica estera «cinica, astuta ed aggressiva» «la grandezza di un'Italia intensamente agricola, industriale e commerciale» 14. Nazionalismo, anticlericalismo, antisocialismo, antiliberismo accanto alla riaffermazione della borghesia colta e imprenditoriale, con aperture «proletarie» ed attenzione ad una crescita di una agricoltura «moderna». Tutto ciò sottolinea come i futuristi non offrono tanto una organica, coerente ed efficace proposta di un rinnovamento politico-sociale di profondo spessore filosofico-politico, quanto piuttosto un tentativo di coinvolgere alcuni fermenti esistenti nella società di quegli anni (nazionalismo, irredentismo, antiparlamentarismo, espansionismo e mito dell'industrializzazione) nella globalità della loro proposta culturale, e attraverso le scelte già operate proprio nel piano culturale, prima fra tutte quel mutamento della sensibilità che va ben al di là delle dichiarazioni dissacranti contro la tradizione e tese al «futuro».
   Risulta difficile, anche nel dettagliato Programma del '13, ricavare un discorso politico coerente e organico: l'antistoricismo futurista pone il movimento «politico» lontano da una solida base concettuale. Ciò che resta, e che pesò in modo significativo nell'immediato dopoguerra, è il ribellismo finalizzato ad una corsa dirompente verso gli ideali di modernità, di dinamismo moderno. Sospinto verso l'idea della creazione di una ideologia «globale», il gruppo marinettiano finisce per limitare fortemente una chiara consapevolezza politica nel futurismo: laddove, invece particolarmente sul piano artistico, si applicò ad una organica e suggestiva teorizzazione, ottenne risultati teorici ed artistici rilevanti. Tant'è che il Partito politico futurista riscosse un ceno successo e, non a caso, anche in ambienti proletari 15, nel dopoguerra, quando, per la convulsa situazione sul piano interno, i fermenti «rivoluzionari», il malcontento, le voci di


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dissenso, le richieste partecipative, divennero dilaganti, e si determinò una frammentazione del sistema politico, causa, a sua volta, del sorgere di movimenti estremisti 16.
   È interessante comunque segnalare in che misura il problema politico, al di là dei programmi e dell'organizzazione del Partito, sia strettamente connesso al nucleo teorico centrale del movimento; ad esempio il rapporto fattivo che Marinetti e il suo gruppo instaurano col mondo della scienza, della tecnica, dell'industrializzazione, conduce il movimento, sul piano delle proposte politiche, ad una richiesta pressante di un adeguato uso delle tecnologie più avanzate, della «specializzazione» sul piano militare, industriale ed agricolo. Così pure, su un piano più interno, attraverso l'incessante e originale lavoro teorico sulla «terza» dimensione della psiche, motivo ampiamente diffuso nelle problematiche culturali del futurismo, oltre all'idealizzazione del moderno «superuomo» conduce il futurismo politico alla sicurezza del possibile avvento del «nuovo» uomo futurista, ardimentoso, pugnace, liberato da schiavitù morali e religiose, dai tabù costrittivi, pronto a manifestare le qualità del genio: tanto che chiunque abbia un animo futurista può entrata far parte del «proletariato» dei geniali. Assistiamo quindi, nella politica del gruppo, ad un intrecciarsi di motivi per così dire «interni» con richieste ideologiche, fermenti politici e sociali propri del primo ventennio del secolo; ora resta necessario chiarire in che modo i due gruppi coesistenti in «Lacerba» affrontano il problema politico, e se eventuali difformazioni possano favorire l'ipotesi che la complessa collaborazione e la definitiva rottura siano state determinate anche da una diversa impostazione del movimento «d'avanguardia» sul piano politico.


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Non è facile sintetizzare le motivazioni culturali e i discorsi programmatici che sono al fondo dell'apertura di «Lacerba» al movimento futurista e soprattutto degli «esiti» futuristi del gruppo toscano, in special modo di Papini e Soffici. La critica ha più volte segnalato puntualmente la singolare collaborazione, soffermandosi sia sull'apporto teorico (in campo figurativo ma anche «letterario», così pure teatrale e architettonico) fornito da Marinetti e dai suoi sulle pagine della rivista, in anni peraltro assai fecondi del movimento; così come non ha mancato di offrire una «storia» esemplare della fase lacerbiana nel cammino culturale dei protagonisti della rivista. Rimandiamo quindi a questi studi, pertinenti e puntuali, per una valutazione complessiva del peso e delle realizzazioni di «Lacerba» e dei suoi protagonisti, sia del gruppo futurista, sia di quello toscano. Qui appare opportuno ricercare, dagli esordi del foglio ai suoi numeri conclusivi, una linea di interesse «politico» nel senso più vasto del termine, per verificare se la svolta interventista dell'agosto '14, al di là degli eventi «esterni», combaciando da un punto di vista cronologico con la rottura tra i due gruppi, non sia in realtà il risultato di due diversi cammini proprio in questo specifico settore. Stando alle dichiarazioni di Papini l'interesse degli ex-vociani verso il futurismo nasce in primo luogo da una comune necessità di «autonomia spirituale» 17, di libertà intellettuale e creativa che del resto Papini dichiara di aver professato e ricercato ancor prima dei Manifesti futuristi 18. Nel '13, con Soffici, e da «uomini spregiudicati e intelligenti» 19, non può non riconoscere nel futurismo «l'unico movimento italiano d'avanguardia». È il primo segnale di un'attenzione e di una apertura destinata, di lì ad un mese, con il Discorso di Roma, a divenire


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«ufficiale», e perfettamente in sintonia con i punti programmatici di Introibo 20; ciò costituisce l'elemento fondamentale del particolare rapporto di Papini e Soffici con il movimento marinettiano: non un'immissione dei due vociani nel futurismo, quanto piuttosto la capillare ricerca di obiettivi comuni che appare però, fin dall'inizio, affidata a cammini «distinti» di realizzazione. Le riserve, i «distinguo» ben calibrati e motivati che sin dal '13 Papini tende a sottolineare 21, possiamo ritrovare immutati negli articoli che segnano il distacco definitivo dal futurismo marinettiano, all'avvio della «nuova» «Lacerba». Anzi potremmo affermare che la rottura si viene a determinare, a detta di Papini, per la persistenza, in Marinetti e nel suo gruppo, di quelle caratteristiche negative di varia provenienza, ed accresciute ancor di più negli anni, già segnalate dai toscani agli albori della collaborazione. La richiesta (e la certezza) di conquistare con «Lacerba» uno spazio ben delineato e «personale» 22 per manifestare e coltivare la «Libertà» 23, «condizione elementare perché l'io spirituale possa esistere» 24, soprattutto nell'arte «giustificazione del mondo-contrappeso nella bilancia tragica dell'esistenza Nostra ragione di essere, di accettar tutto con gioia» 25, non collimava, già nel '13, con la puntigliosa «programmazione» futurista; così Papini segnala


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la pericolosità di restringere il movimento: «Le teorie possono esser pericolose; gli aggruppamenti rinforzano praticamente ma indeboliscono spiritualmente costringendo a una specie di unilateralità camorrista» 26. Nella polemica risposta a Il cerchio non si chiude! di Boccioni, il toscano batte più volte il tasto della sua personale avversione alla «dommatica futurista» 27: «Entrando nel Futurismo non ho mai creduto di entrare in una chiesa ma in un gruppo di artisti rivoluzionari e spregiudicati» 28. Insomma Papini rivendica costantemente una autonomia teorica e creativa dal movimento non esclusivamente per motivazioni «psicologiche» e personali (pur molto vive nell'orgoglioso fiorentino), quanto piuttosto come presupposto di una reale «libertà assoluta» 29 che unita al «rischio», alla «ricerca azzardosa e senza regole», al «disgregamento di ogni mito», all'«ateismo integrale», al «cinismo» e all'«immoralismo» 30 egli ritiene imprescindibili e fondamentali in un movimento d'avanguardia che i tempi richiedono. Su questa linea, e in questi margini di manovra, il gruppo toscano soppesa di volta in volta le iniziative teoriche e gli esiti dei marinettiani, non limitandosi ad un accordo passivo, ma immettendo una personale, e già sperimentata, strategia dell'avanguardia, anche nei mesi in cui in «Lacerba» il campo sembra essere quasi del tutto nelle mani dei «milanesi».
   Nell'articolo di Papini e Soffici «Lacerba» il Futurismo e «Lacerba» 31, punto conclusivo e chiarificatore della frattura tra i due gruppi, vengono ben delineate le ragioni di fondo e dell'accordo con il futurismo, e soprattutto della linea d'avanguardia proposta dai toscani, i quali non esitano a


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dichiarare che: «Noi seguitiamo ad essere futuristi quanto prima in quello che ancora ci sembra vitale nel futurismo. (Anzi ci sembra, in fondo, d'essere proprio noi i veri futuristi, i più moderni32. A questo punto non resta che analizzare il nucleo centrale della proposta degli ex-vociani, per verificare la reale portata «autonoma» del gruppo. Noteremo meglio in seguito in che modo le finalità iniziali della rivista, il perché stesso della sua creazione, la tipologia delle realizzazioni, si vadano determinando e nella fase pre-futurista, e, con più vigore, nella fase post-futurista e interventista. Ritornando per un attimo al confronto con il futurismo marinettiano, la ricerca dell'autonomia teorica, sul piano letterario ed artistico, dei toscani può trovare un primo elemento chiarificatore in una indicazione espressa da Soffici e Papini nell'articolo succitato: «Le opposte tendenze si precisarono meglio nella lirica cogli ultimi manifesti di Marinetti sulle parole in libertà seguiti dal suo Zang tumb tumb, e nella plastica coll'apparizione del libro di Boccioni sulla Pittura Scultura Futurista» 33. Che ci si trovasse di fronte ad un accordo impossibile, Papini e Soffici ne hanno consapevolezza non solo per le ragioni poco oltre elencate 34, piuttosto perché quei manifesti, e le due opere dei «milanesi» apparivano loro come resultanti dirette di quanto Papini aveva rimproverato puntigliosamente ne Il cerchio si chiude 35, e ribadito con più calore in Cerchi aperti. La


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polemica con Boccioni diviene quindi, non tanto il segnale di una rottura di lì a poco definitiva, ma soprattutto un terreno di raccolta di spunti indiziari estremamente suggestivi per la proposta da noi avanzata. Non occorre, a questo punto, seguire passo passo le affermazioni papiniane e le sdegnose controrisposte di Boccioni. Il Baldacci ha già lucidamente analizzato i termini e le argomentazioni della querelle 36. Qui ci sembra opportuno richiamare l'attenzione su un punto del primo articolo di Papini, quando segnalando come «nelle punte ultime delle ricerche, mi sembra di scorgere una negazione (autosoppressione)» 37 dell'emisfero «lirico concettuale» 38, tanto che nel futurismo è chiara la tendenza a «sostituire alla trasformazione lirica o razionale delle cose le cose medesime» 39, Papini appunto fa notare che «per ora siamo al principio ... Ma se il metodo prendesse piede e si spingesse all'ultime conseguenze più rigorose ne verrebbe che il miglior quadro di natura morta è una camera mobiliata» 40.
   Ora Papini non solo con il suo «spiritaccio loico scompaginatore» 41 mette sull'avviso i futuristi dal pericolo di una «naturalizzazione dell'arte» 42 dichiarandosi non disposto a seguirli su questa strada «salvando» l'arte «che è il nostro


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unico amore» 43; in più Papini sperimenta direttamente, su un punto teorico ed artistico di centrale importanza, l'assunto per lui determinante, in un movimento d'avanguardia e «rivoluzionario», di portare il processo conoscitivo e al tempo stesso demolitivo «sino alle estreme conseguenze».
   Così replicherà alle accuse di Boccioni:
   «Non ho detto che l'arte moderna sa finita o vada verso la fine. Ho raccolto un certo numero di fatti — veri, innegabili, constatabili — per indicare il principio, il primo sintomo di una possibile degringolade fuori della creazione. Ho detto: c'è questa tendenza appena iniziata. Se questa tendenza si allargasse e si estendesse e si affermasse in questa data direzione (cioè: nel mettere le cose stesse al posto delle cose da rappresentare) allora si arriverebbe quaggiù 44;
   I risultati di quello che Papini definisce un «esperimento mentale» 45, condotto attraverso un procedimento incalzante e spietato, portato, appunto, sino alle estreme conseguenze, sono rifiutati: a Papini, e lo dice chiaramente, non interessa farsi promotore di un salto all'indietro, verso moduli espressivi «realistici» o, peggio ancora, verso «macchie di verismo più bestiali del verismo antico» 46. Con ciò Papini non accusa certo i futuristi di essere totalmente su questa strada: ma fa notare che il pericolo esiste, ed è preferibile far bene attenzione, auspicando, nel movimento, una maggiore consapevolezza


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teorica, un più accurato consolidamento della base concettuale, dato che ogni rivoluzione, per essere tale, deve spingersi sino alle estreme conseguenze. Una volta imboccato un certo cammino, esso va condotto sino in fondo.
   Papini più volte aveva segnalato nei futuristi (ed è un altro di quegli elementi «negativi» che il fiorentino addita sin dall'inizio della collaborazione al gruppo marinettiano) nonostante la folta presenza di manifesti programmatici, la mancanza di una solida base teorica. Tant'è che i due toscani non mancheranno di sottolineare come il gruppo nativo di «Lacerba» abbia contribuito primariamente a fornire, ai metodi futuristi, «la più feconda giustificazione teorica spirituale» 47, sperando «di poter dare a questo ardito movimento di avanguardia quel fondo più sostanziale di cui ci sembrava anche allora che mancasse» 48.
   Ora, pur non volendo nella contesa far nostre le impressioni dei toscani, e ritornando al problema dell'atteggiamento «politico» nei due gruppi, non possiamo che concordare con il giudizio papiniano. Ma più che una messa sotto accusa della politica futurista, interessa notare se, in questo settore, le necessità innovatrici di Papini e del suo gruppo siano il risultato di una revisione, sul piano ideologico e filosofico, più serrata e organica di quella futurista, tenendo però presente che non è nostro obiettivo quello di esprimere un giudizio valutativo né sull'avanguardia futurista né sull'avanguardia toscana, ma di ricercare, è il caso di ripetere ancora una volta, la diversa impostazione dei due movimenti, in particolar modo sul piano ideologico-politico. «Occorre essere liberi» 49, affermava Papini nel suo primo articolo dedicato al futurismo, «fare una campagna per l'indipendenza, una guerra per la libertà» 50. Non necessita ricordare il


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peso, le diverse manifestazioni e il ruolo, all'interno della società culturale dei primi del secolo, della irrequietezza intellettuale di Papini, la spregiudicata e originale ricerca del giovane fiorentino è stata, ed è tuttora, sottoposta ad alterne ed articolate messe a fuoco sul piano critico. Così pure ci appare ancor oggi estremamente stimolante e ricco di soluzioni uno studio organico dei legami della cultura papiniana con quella del suo tempo.
   Cercando di rimanere in un ambito cronologico ristretto agli anni di «Lacerba», data la complessa sfaccettatura della personalità del nostro, e stando soprattutto alle sue stesse dichiarazioni nella rivista, possiamo senz'altro affermare che «Lacerba» nasce con la precisa volontà di ritagliare uno spazio ben delineato e assolutamente originale e indipendente alle «questioni» artistiche in un momento in cui «sotto l'influenza personale del direttore, si rafforzarono nella Voce quelle correnti e quelle persone che mettevano al disopra di tutto le questioni pratiche, sociali, economiche, pedagogiche e morali» 51. E qui è facile segnalare come ancora una volta Papini dimostri la sua intolleranza all'idealismo militante, di marca crociana, la quale, a sua volta, segna il limite della particolare collaborazione del nostro a La Voce, «finalizzata», per così dire, a singole e settoriali «campagne anche letterarie ed artistiche» 52 e del tutto aliena, sia pur in modo molto particolare, a raccogliere l'invito verso un idealismo marcato. Ma la posizione di Papini non è poi tanto lontana da quella di altri intellettuali che parteciparono alle vicende vociane: infatti riteniamo, come abbiamo già avuto modo di notare 53 che per quanto riguarda la rivista prezzoliniana, non è tanto importante verificare nei collaboratori il peso della individuale riassunzione dell'idealismo crociano, ma


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piuttosto segnalare quanto giuochi un ruolo determinante il complesso degli «stimoli» idealistici; primo fra tutti la fiducia accordata all'impegno «diretto» dell'intellettuale.
   Dunque «Lacerba» nasce come rivista «più libera e più artistica» 54 in quanto ne «La Voce» «l'arte era sempre tollerata ma senza entusiasmo e non era ammessa altra teoria che non avesse colore o bollo idealistico» 55; ma è subito chiaro, e la critica lo ha doverosamente segnalato, che ci si trova difronte non ad una precisa opzione semplicemente artistico-letteraria, piuttosto ad «un ambito che abbraccia più in generale un quadro complessivamente ideologico» 56.
   È necessario ricordare che il primo periodo di «Lacerba», quello prefuturista è assai breve: già nel numero terzo della rivista l'articolo di Papini Il significato del futurismo tende a manifestare la possibilità di una concordanza di finalità e di strategia con il movimento marinettiano, ulteriormente suggellata dal Discorso di Roma pubblicato nel 5° numero e tenuto da Papini il 21 febbraio del '13 al Teatro Costanti.
   Non è facile quindi verificare se prima dell'incontro con i futuristi in «Lacerba», appena all'avvio, si fossero effettivamente realizzate le aspirazioni degli ex-vociani; così come, del resto, non è possibile ritenere perfettamente omogenee le sue fasi pre e post-futuriste, in quanto, al di là delle dichiarazioni papiniane, l'esperienza con l'avanguardia «milanese» determina pur sempre un mutamento o comunque un accrescimento delle esigenze teoriche dei toscani; a questo va aggiunto il peso determinante dell'impegno «interventista» che caratterizza in modo inequivocabile il terzo periodo provocando una immissione profonda di motivazioni ideologiche, politiche, sociali.
   Ma è pur sempre possibile rintracciare un filo conduttore di concretezza teorica nel cammino della rivista: la fase d'avvio mostra effettivamente una propensione alla originalità e


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alla autonomia creativa sul piano letterario ed artistico, codificate nell'Introibo papiniano, col lungo studio di Soffici sul cubismo 57, l'avvio del Giornale di bordo 58. Ed a quest'ultimo, assieme ai primi interventi di Palazzeschi, ci sembra doveroso prestare attenzione. Se infatti i primi numeri di «Lacerba» offrono largo spazio al cinico e dissacrante discorso papiniano (vedi soprattutto I Cattivi 59) un indizio interessante teso al chiarimento dell'idea di letteratura sotteso a «Lacerba» ci è offerto dal primo appunto del Giornale di bordo:

   «Ogni volta che pigli la penna in mano, tu ti prepari a far della letteratura, tranne quando tu la prendi per scrivere alla tua amante o al tuo amico - se sei un uomo. Il tuo libro, tu lo sai, dovrebbe essere scritto con la stesso stile di quelle lettere; ma tutti ti accuserebbero di non rispettare l'arte. L'arte deve dunque essere necessariamente un po' falsa - un artificio, in fondo - per piacere agli altri 60.

   Ma Soffici dichiara di compiere una scelta non facile, quella di un'assoluta sincerità: «oscuro e vilipeso» 61, eppur sincero, confidando nell'avvento di «lettori liberi da preconcetti; sensibilissimi» 62. Ciò convalida l'ipotesi di una particolare «gratuità che i lacerbiani rivendicano. all'arte» 63 da non confondersi «con le successive dichiarazioni di autonomia, di aperto e dichiarato disimpegno, che caratterizzeranno tanta parte delle nostre lettere a venire» 64. È chiaro quindi che ci troviamo di fronte ad una scrittura impegnata e di natura ideologica 65, anche quando questo impegno si rovescia al grottesco 66, come mostra Palazzeschi già nelle prime collaborazioni.


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   Nel momento in cui le istanze lacerbiane iniziano l'incontro — scontro con quelle futuriste, assistiamo ad un affioramento di notevoli proporzioni dell'elemento ideologico, teorico e filosofico, coesistente all'elemento cinico e dissacrante (tal che quest'ultimo finisce per essere uno «strumento» dell'analisi non certo il risultato); presenza che non può certo ritenersi totalmente intrinseca alla proposta lacerbiana, piuttosto sotterraneo rispecchiamento di un modello, di un comportamento già precedentemente sperimentato, in particolar modo da Papini, non solo nella fase leonardiana, quanto piuttosto in quella de «Il Regno» e de «La Voce».
   Sotto questa luce ci sembra sia necessario guardare all'avvio immediato, già nel Discorso di Roma, da pane di Papini di un discorso «politico», inizialmente su basi filosofiche, poi sempre più impostato ad una singolare ed aderente «lettura» della società del tempo, ai problemi a questa connessi, e crescente via via che ci si avvicina alla «svolta» dell'agosto 1914.
   Gli articoli che esamineremo chiariscono la particolare struttura dell'analisi papiniana, aggressiva, puntigliosa, perfettamente in linea con quanto preannunciato nell'Introibo («Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale» 67), in quel suo intervenire su alcuni capisaldi critici del futurismo, reinterpretandoli, immettendovi una «carica» di pensiero e di «azione» tipicamente personali; tutto ciò non provoca un intervento, sia pur appunto «personalizzato» sugli idoli polemici futuristi, quanto una maggiore consapevolezza degli obiettivi da distruggere, delle finalità operative, della volontà di evitare pericolose collusioni con un anarchismo sterile e superficiale, ed accentuata proprio sul terreno ideologico-politico.


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   Non intendiamo entrare nel merito delle affermazioni papiniane, volutamente e coscientemente urtanti, come sappiamo: riteniamo che sia necessaria non tanto una valutazione sulle idee e sulle proposte del nostro (che comunque risentono, pur nella spiccata originalità, di orientamenti culturali e politici del tempo), bensì una attenta ricerca dell'impostazione complessiva del suo discorso, e dell'uso che Papini fa del materiale esplosivo, teorico e concreto, caparbiamente e cinicamente raccolto lungo il cammino.
   Nel Discorso di Roma lo sprezzante binomio futurista Roma = passatismo viene vieppiù allargato da Papini attraverso una rapida e beffarda carrellata sui vizi e sulle miserie della città «eterna», per sottolineare quanto il primato di Roma si sia costruito nei secoli «a spese dei vicini e dei lontani» 68 (fra cui i toscani, nota il nostro, non senza ombra di campanilismo), e quanto Roma sia divenuta il «simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale, rivolta innanzi e non sempre indietro» 69.
   Nella serata al Teatro Costanzi, i veri obiettivi da distruggere per Papini anche per rendere più chiaro il senso della sua partecipazione alla battaglia futurista, sono le «due tendenze che paiono opposte ma spesso s'incontrano nel torbido delle acque comuni ed hanno effetti spaventosi assai somiglianti» 70: «il ritorno alle fedi religiose e il ritorno alle filosofie di tipo tedesco» 71.
   La nostra ricerca non può spingersi, a rischio di perdere di vista i limiti che ci siamo imposti, tra le frenetiche e concitate accuse mosse da Papini al cattolicesimo e alla filosofia crociana, e non è facile presentare una sia pur breve «antologizzazione» delle medesime. Qui ci basta segnalare


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due elementi: che l'avvio della «volontaria alleanza offensiva e difensiva contro i nemici comuni» 72 con i futuristi mostra un Papini pronto a dar battaglia su un terreno, da un punto di vista filosofico-politico, ben più concreto di quello dei «neo-alleati». E che Papini stesso fa notare, in un corsivo di presentazione al Discorso stampato su «Lacerba», come il suo intervento fosse composto da «alcuni miei favoriti pensieri» 73, specificando i termini della sua non nuova polemica attenzione ai «cristianucci» e alla filosofia di Croce 74.
   Non stupisce quindi il fatto che al momento di precisare un punto programmatico centrale della rivista, quello dello «spirito rivoluzionario», Papini non riprende dai futuristi alcuno spunto teorico o dichiarazione sul problema della «rivoluzione», ma porti avanti la sua personale proposta, suffragata da una rapida serie di «inchieste» sui movimenti rivoluzionari, o presunti tali, dei primi anni del secolo, alcuni dei quali lo videro interprete se non addirittura promotore.
   L'avvio dell'indagine è offerta da un articolo La necessità della rivoluzione 75 il quale mostra una lucidità di organizzazione teorica, di riflessione critica e di espressione che contraddistingue proprio i «pezzi» di Papini improntati a temi filosofico-politici: elemento da non sottovalutare nella nostra analisi che tende a chiarire la tipologia e gli esiti del discorso «impegnato» in «Lacerba», il quale effettivamente si differenzia dalle «zone» dissacranti, spregiudicate e grottesche in cui la vis polemica e cinica prende il sopravvento sull'intervento riflessivo.


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   Ne La necessità della rivoluzione Papini chiarisce le istanze che sono al fondo della proposta intellettuale di «Lacerba», partendo da un presupposto di ordine generale:

   «Nello spirito come nella vita (pratica, politica) due sono i momenti o temperamenti mentali che si contrastano senza mai distruggersi perché necessari l'uno all'altro e necessari all'insieme: l'istinto dell'ordine [...] e quello del disordine. Si può criticare e rinnovare soltanto quel che esiste di già - ma ogni ordine, ogni tradizione non sono che scoperte e rivoluzioni glacializzate e fissate» 76.

   Entrambi gli «istinti» sono «egualmente necessari» 77: ne consegue che «le cose vanno male quando uno di essi spadroneggia per troppo tempo» 78. Papini riconosce che in Italia, soprattutto a cavallo tra i due secoli, vi «sono stati abbozzi e principi di movimenti rivoluzionari», ma allo stadio, appunto, embrionale, in primo luogo perché tradizionalmente importati da paesi stranieri 79. «Il che viene a dire che l'istinto conservatore ha preso decisamente il sopravvento su quello sconvolgitore» 80.
   Papini passa poi all'analisi stringata di questi «aborti» rivoluzionari, che sono, nell'ordine, il sindacalismo, il nazionalismo, il pragmatismo, il modernismo, il futurismo. Non è opportuno, in questa sede, analizzare l'articolarsi del giudizio papiniano su questi movimenti che, come abbiamo testè ricordato, lo riguardano, in qualche caso, direttamente. Qui basta segnalare ancora alcuni motivi pertinenti alla nostra indagine: l'unico appunto che Papini muove al futurismo è quello, diremmo noi, sostanziale: che il movimento marinettiano necessita di «una solida colonna vertebrale» 81 teorica. Motivo ancora una volta ricorrente nel


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discorso papiniano e senza dubbio discriminante agli occhi del nostro. Il fatto poi che Papini in un articolo così significativo, per ampiezza di riferimenti filosofici e politici, e per la presenza di una personale proposta teorica «rivoluzionaria» che suggelli il discorso, abbia ancora una volta battuto il tasto della «fragilità» interiore del futurismo, autorizza l'ipotesi che il gruppo toscano si sia assunto appunto il compito di «rafforzatore» teorico dell'avanguardia, come del resto dichiarerà in Futurismo e Marinettismo 82.
   L'altro elemento che riteniamo opportuno segnalare, in quanto anch'esso ricorrente, è che Papini mette al primo posto tra le cause della «debolezza» dei movimenti rivoluzionari tra otto-novecento il fatto che essi «non sono stati spinti all'estremo» 83.
   È questo il motivo fondamentale non solo della proposta «rivoluzionaria» portata avanti nell'articolo, ma dell'esperienza tutta di «Lacerba» e del suo principale protagonista. Partendo dalla constatazione che «l'Italia sia nel passato (e lo dimostra la sua storia) che nel presente (e lo dimostra il rapido esaurirsi degli ultimi tentativi rivoluzionari) manca precisamente di spirito rivoluzionario» 84, Papini ritiene che il compito primario di «Lacerba» sia quello «di suscitarlo ed accenderlo dove non c'è e di rinfocolarlo e incoraggiarlo dove ce n'è qualche traccia» 85.
   Ma è necessario, per Papini, non commettere l'errore di quegli «aborti» rivoluzionari: ne consegue che

   «le idee rivoluzionarie non resistono e non vincono che quando sono spinte fino alle ultime conseguenze; e i rivoluzionari debbono essere loro


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stessi integralmente rivoluzionari, non già come succede, spiriti mezzi e mezzi, avanzatissimi in certe direzioni e reazionari in tutte le altre» 86.

   Innanzi tutto, quindi, un mutamento sostanziale, profondo, radicale al livello intellettuale e di «spirito», condotto attraverso una «educazione rivoluzionaria» 87. Le «radici» profonde da sradicare saranno, per Papini e per «Lacerba» la religione, la morale e la tradizione 88.
   Da questo nucleo nasce l'esperienza di «Lacerba» ma soprattutto quella di Papini dal '13 alla «svolta» dell'agosto '14: il problema del rapporto «diverso» sul piano politico rispetto al movimento futurista ci sembra, a questo punto, più chiaro. L'avanguardia, ogni avanguardia, per Papini, deve avere una visione precisa degli obiettivi da distruggere in vista di una ricostruzione finalmente «moderna». Tutto ciò comporta la necessità di una valutazione organica e coerente innanzi tutto a livello filosofico, quindi politico-sociale, della realtà e delle problematiche culturali e politiche del proprio tempo. L'avanguardia nasce in un preciso contesto storico, e da lì deve prendere le mosse portando sino alle estreme conseguenze i propri assunti teorici; a Papini non interessano tanto il fine pratico, effettivo, il risultato di questo processo rivoluzionario, in quanto ritiene che ad essi debba necessariamente ed inevitabilmente seguire un momento di «congelamento» in quanto «senza tradizione andrebbero perdute le conquiste della rivoluzione» 89. Essendo entrambi gli istinti (di rivoluzione e di tradizione) complementari e necessari l'uno all'altro, in vista proprio di un consolidamento e di un rafforzamento nella tradizione, è imprescindibile il fatto che il momento rivoluzionario sia veramente tale, portato sino in fondo; altrimenti la «conservazione, calma, disciplina, consolidamento» 90, che


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contraddistinguono l'istinto dell'ordine, si realizzerebbero su un terreno non realmente innovato e innovativo.
  Ancora un altro motivo vogliamo segnalare prima di affrontare il problema del giudizio mosso in sede critica a questa singolare esperienza papiniana: il nostro attribuisce al «coraggio di spingere all'estremo le proprie idee» 91, una finalità costruttiva. Infatti afferma a conclusione dell'articolo:

   «Soltanto quando l'intelligenza sarà giunta sino in fondo alle sue negazioni potrà affermar qualcosa; soltanto quando ogni fede sarà distrutta potrà nascere la nuova certezza, soltanto quando il disordine sarà perfetto potrà formarsi il nuovo ordine, il nuovo equilibrio. La prospettiva potrà essere spaventosa ma non c'è verso di allontanarla per l'eternità. E allora val meglio far sì che ciò che deve compiersi si compia al più presto perché più presto l'uomo ritrovi altre ragioni della sua vita e una disciplina superiore nata dalla più assoluta libertà» 92.

   Ciò a nostro avviso serve a segnalare quanto Papini avverta la crisi intellettuale ed esistenziale del suo tempo, alla quale egli tenta di fornire una risposta che inizialmente risente della sua intima incapacità di affidarsi ad una soluzione per così dire già pronta, già sperimentata, codificata. Così rifiuta in «Lacerba» la certezza di un sistema etico-filosofico di salda organicità (l'idealismo) e la certezza tutta spirituale della fede cristiana.
   L'esperienza di «Lacerba» segna un momento assai significativo nella vicenda intellettuale e umana di Papini, e a nostro avviso è necessario, al momento della chiarificazione critica, tenere presente la singolare «maturazione» del nostro, senza insistere troppo sul «ribellismo», sulle «ambivalenze» o sul «teppismo», ma guardando con attenzione a questo suo effettivo andare sino in fondo nel suo


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processo interiore. Se quindi è possibile concordare con l'Isnenghi quando, a proposito della fase lacerbiana di Papini rileva una riconferma del «ruolo di esponente del potenziale eversivo della generazione sul piano intellettuale» 93, non ci sembra opportuno catalogare la complessità della sua ricerca sotto l'etichetta di «camaleontismo», di «trasformismo», di «teppismo», nel tentativo di presentare anche l'altra svolta, quella fondamentale e ben più profonda della conversione, come recupero di valori tradizionali, come momento culminante delle ambivalenze papiniane che sono poi, per l'Isnenghi, comuni all'intellettualità «piccolo borghese» del primo ventennio del secolo. La centralità delle problematiche relative alla conversione di Papini ci impone un breve inciso; l'Isnenghi afferma inoltre che nel nostro «le istanze, le velleità di protesta maturano [...] fin dentro i richiami all'ordine e attraverso essi» 94 ritenendo pertanto Papini perfettamente integrato nel ritorno all'ordine, «una delle opposizioni alla fine del dopoguerra» 95, la cui caratteristica consiste nel presentare e vivere questo «ordine come disordine, la restaurazione come rivoluzione» 96. Ancora una volta, a proposito della Storia di Cristo, l'Isnenghi batte il tasto dell'«ambivalenza interna» 97 papiniana, sottolineando, provocatoriamente ma perfettamente in linea con quanto affermato precedentemente, come il «testo colorito ed enfatico, imperioso e dissonante» 98 «non appare sfasato storicamente, uscendo circa un anno prima della 'Rivoluzione fascista' 99.
   Se è pur vero che l'esperienza culminata nella Storia di Cristo possiede motivazioni e parabole culturali comuni all'intellettualità del primo dopoguerra, ci sembra doveroso


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far notare come la svolta della conversione debba, in sede critica, essere analizzata e compresa partendo prima dal piano interno, «personale», andando al fondo della maturazione papiniana, non fermandosi alla semplice coesistenza di estetici tradizionali e «rivoluzionari». Innanzi tutto, per una «storia» della conversione di Papini, è necessario valutare con attenzione la sua collaborazione al «Rinnovamento» casatiano e il conseguente profondo e fecondo rapporto col mondo cattolico milanese, non già alla ricerca di antecedenti, quanto piuttosto per segnalare la cospicua ricerca filosofico-religiosa papiniana, l'interesse verso le problematiche moderniste, i «mistici» e la metafisica spiritualista di Berkeley; tutto questo offre la possibilità di valutare la portata della cultura religiosa (teologica e filosofica) di Papini, che, pur dopo anni di ribellioni e di cinismo, giuoca un ruolo fondamentale nel «ripensamento» della coscienza, spirituale e culturale, che precede la conversione; la quale non ci appare puro «recupero» o «adeguamento», bensì «rinascita» e chiarificazione dello spirito, nel senso più intimo, e della personale intellettualità.
   Il nostro lavoro si propone anche come tentativo di ricerca di una linea che da Un uomo finito alla Storia di Cristo passa per «Lacerba»; più volte abbiamo segnalato la singolare importanza del discorso ideologico, anche in senso storico-politico, che già presente nella fase iniziale della rivista, si va ampliando sino ai lunghi articoli su «capisaldi» della società, pubblicati nella terza fase di «Lacerba», dopo essersi manifestato chiaramente con la «svolta» politica del '14.
   Ciò sta a significare, a nostro avviso, quanto la presenza delle tematiche ideologiche, l'interesse, sia pur «particolare», verso la storia, la politica, la società, mostrino l'affiorare di una ricerca effettiva sul piano teorico, ove il cinismo dissacratore lascia via via spazio ad una più ragionata e pacata indagine che resta materia viva ed operante negli anni della guerra e del dopo-guerra. Si guardi, ad esempio, come nelle pagine del carteggio con Prezzolini, l'utilizzazione dell'antica e sperimentata «prassi» del «paradosso» acquista,


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e siamo agli albori della Storia di Cristo, una nuova dimensione, non meramente «ribaltatrice», quanto piuttosto fattiva, concreta:

   «Ripeto luoghi comuni ma in fondo (e noi che abbiamo fatto i paradossisti s'ha il diritto di dirlo) la grande, la massima originalità sarebbe ormai di mettere in pratica i luoghi comuni, magari i più barbogi, che ci son venuti a noia perché tutti li dicono ma che salverebbero il mondo se diventassero, una buona volta, fatti» 100.

   Il «fatto» fondamentale è appunto per Papini la certezza che la «salvezza» 101 va ricercata nella religione intesa «nel senso più vasto di quello “civico” e riferirsi a quella che è stata per tanti secoli la religione dell'occidente» 102.
   Tra i motivi interni della religiosità papiniana sembra doveroso segnalare il riconoscere di essersi convertito «a una dottrina di umiltà e di amore» 103.
   Nella lettera citata è possibile verificare non solo la profondità del mutamento papiniano, ma anche lo «spessore» della sua esperienza religiosa:

   «La conversione non porta e non concede la santità [...] Ma dà il desiderio della santità; dà il senso del peccato [...] non già, purtroppo, l'esenzione dal peccato. Mentre prima io cercavo cinicamente di giustificare i miei errori, di trasformare sofisticamente le mie colpe in virtù nuove, e mi compiacevo scioccamente della mia forza o del mio ingegno [...] ora so di non esser nulla, di esser sudicio, so di aver errato, so che il mio dovere unico è di non errare più» 104.

   E ancora:

   «Io conosco ora la mia povertà: e questo è un principio di ricchezza interiore di altissimo prezzo [...] Ecco il gran mutamento, la vittoria, la speranza. Ma povero e vile ero; povero e vile sono. Ora, però, accetto


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questa povertà e viltà, le riconosco, ne soffro, e cerco di scemarle [...] invece di volerle ignorare o di abberlirle colla parola» 105.

   Se Papini all'inizio del «nuovo» 106 cammino guarda con occhio e spirito mutato alle passate esperienze, ci sembra tuttavia che ad esse si possa dare un giudizio per certi versi vicino a quello che offre Prezzolini in una lettera del '22:

   «né dimenticherò mai quanto debbo a te, che mi illuminasti, mi spingesti, mi confortasti per una via che a te sembra ora errore, e a me pare la vera via dell'uomo, piena di cadute e di sforzi per tirarsi su, sempre più in su» 107.

   Nel senso cioè che l'esperienza degli anni lacerbiani ci appare a suo modo singolarmente coerente in quanto lineare resultante di quella volontà di portare il processo di ricerca e di conoscenza «sino alle estreme conseguenze»; in ciò consiste il legame (e al tempo medesimo la personale divergenza) di Papini con la travagliata introspezione degli intellettuali della sua generazione, dilaniati dal conflitto tra una ricerca filosofica e spirituale tesa alla organicità e alla coerenza, e gli interni smarrimenti, le profonde incertezze, le individuali istanze, in quanto intellettuali operanti in una società di globale trasformazione culturale, sociale, spirituale. Papini raccoglie ed esaspera questi ostacoli, queste inquietudini spirituali, portandoli, appunto, sino in fondo, distaccandosi, in questo senso, dalle ricerche più pacate e riflessive.
   Il legame di Papini con l'atmosfera del suo tempo è rilevato con singolare partecipazione da Boine nella sua lunga e sentita Epistola al Tribunale 108, ove, pur manifestando il suo totale scetticismo sulla originalità creativa di


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«Lacerba» 109 vista come «epigone» e «riecheggiamento» de Un uomo finito, è spirito dalla volontà di comprendere (e, a suo modo, di salvare) Papini al di là della facciata: «Dico breve, che dietro il riso, il paradosso, la stranezza tutta frustate e rivolta di Giovanni Papini, voi sentite tumultuare un mondo che non è il vostro e che temete; sentite un uomo vivo dibattersi» 110.
   Boine riscatta e fa suoi «il grido» e la «protesta» che escono da Un uomo finito contro la «moralistica compostezza di quintessenziali borghesi» 111 contro «voi logicizzanti» 112 contro «l'universalità del vostro idealismo» 113, scorgendo, «nella tragicità dolorosa di questo suo paraddossismo forzato, di questa sua voluta artificiosità» 114, «uno sfogo», «uno sbocco ad un suo tumulto che ruglia nella profondità chiusa» 115.
   «L'inquietudine fonda», il «cieco maroso d'insueta vita che c'è sotto e che non riesce a sgorgare» che Boine segnala con passione in un «pezzo» che pur segna la sua personale distanza dalla «tipologia» della proposta papiniana, diviene bagaglio e testimonianza di una generazione che avverte «sopra noi nella nostra vita e nella nostra coltura qualcosa di pesante come un cielo di piombo» 116. E si badi che l'indicazione che risalta dalle pagine boiniane non è solo diretta contro la «soffocante» presenza dell'idealismo, ma finisce per assumere una funzione paradigmatica del cammino di un'intera generazione.
   L'ansia e il travaglio di cui Papini è partecipe, pur giungendo ad accentuazioni «ribelli», è ben testimoniata da un passo del carteggio Amendola — Boine del 1911:


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   «Tu mi chiedi a che punto sono in faccende filosofiche? Ma a che punto vuoi che sia? Ho delle tendenze tra sentimentali e concettuali che stanno fisse ed ho degli impeti, ho dei bagliori. Ma ad una sistemazione tecnica anche parziale di tutto ciò ho rinunciato [...] Io sono un uomo che vive da quattro-cinque anni con un intenso bisogno di sistema, col bisogno dell'affettuosità saldamente costrutta, col bisogno di uscire dall'io piccolo a viver nell'ampia concretezza della realtà definita 117.

   E Amendola, di rimando:

   «La nostra anima moderna è troppo avvelenata di divenire, perché un angolo di edificio, costruito o no, debba valere meno dell'edificio oggi solido, e domani polvere. Io aspiro a trovare l'essere nel divenire, e, se non sbaglio, faccio della filosofia, perché la vita del nostro tempo (dopo tanto muoversi) è giunta a dover far i conti fondamentali che si chiamano filosofia; in realtà, mi sento oppresso dal problema vitale del mio tempo, e sento che i miei concetti filosofici, anche se determinati e organizzati con amore di verità e con stile, lasciano sfuggire tra le loro unghie quelle angustie di vita che mi tormentano 118.

   Ritornando alla nostra indagine, i frequenti richiami che Papini, come abbiamo visto, lancia ai futuristi per impegnarli in una maggiore consapevolezza della forza «rivoluzionaria», distruggitrice di miti ma anche pronta ad indicare nuove possibilità, permettono di rintracciare quella linea di particolare coerenza che segnaliamo. La «svolta» interventista non giunge a caso all'interno di «Lacerba», ma segue un preciso filo teorico e operativo; apparentemente un intervento centrale sul problema politico (ci troviamo di fronte alle elezioni politiche del '13) può apparire come un'ulteriore riprova del cinismo e dell'«eversione» papiniana, sempre che ci si fermi al titolo, Freghiamoci della politica 119. Ma un esame attento dell'articolo permette di notare come, pur partendo da una «rassegna cinica dei partiti» 120, in Papini riaffiori l'antico stimolo, già sperimentato ne «Il Regno», di comprendere e di segnalare gli squilibri, le incertezze, la


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mancanza di vigoria della classe politica del tempo, la quale trovandosi in un momento di problematico rinnovamento e compressa dalla politica di mediazione giolittiana, finisce per essere un facile bersaglio della dura analisi papiniana. La struttura stessa dell'articolo, che muove da una iniziale affermazione di totale dissenso («noi non ci occupiamo di politica. E le elezioni ci fanno schifo» 121), per poi lasciar spazio ad una lunga requisitoria sui mali che affliggono gli schieramenti politici, mostra ancora una volta quanto il «ribellismo» papiniano sia più apparente che reale. Con questo non si può certo concordare del tutto con l'analisi ivi presente: piuttosto ci interessa segnalare come Papini in più punti centri l'obbiettivo 122, riprendendo non solo il filo delle vecchie polemiche, ma anche giudizi, impressioni, critiche vive e presenti nella battaglia politica di quegli anni, e non solo quelle indirizzate contro Giolitti. Tanto che la chiusa dell'articolo finisce per alterare i termini di partenza: non quindi freghiamoci della politica, ma di questa politica 123.
   Perfettamente in sintonia con quanto affermato in questo articolo appare la Postilla al Manifesto politico futurista, pubblicato nel numero successivo 124. Il nuovo segnale indirizzato ai futuristi, unito ad un ulteriore personale «distinguo» dal movimento marinettiano, contiene un'affermazione interessante su cui si basa tutto il contrappunto papiniano al Manifesto. La «vera» politica consiste «nell'impadronimento della reali forze del paese» 125. Il che non è


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solo una velata riserva alla superficiale fisionomia dei punti programmatrici del movimento politico futurista, ma anche una conferma della tendenza papiniana: «l'acido del suo scetticismo» 126 vuol ancora una volta battere il tasto di quell'andare fino in fondo. Se Papini aveva affermato che la vita politica italiana non sembrava, a quel punto con gli orientamenti presenti, in via di una sostanziale mutazione 127, non riteneva certo opportuno affidare le superstiti speranze ad un programma dove non c'è nulla di «nuovo, originale» 128.
E aggiungeva:

   L'azione che Marinetti annunzia ora come politica è precisamente quella che fa la gloria e la grandezza del Futurismo come rinnovamento di spiriti per mezzo di un'arte nuova e di una visione nuova del mondo. Mettere questo movimento artistico - che ha la sua importanza nazionale e nazionalista - in coda a un programma politico o sottoforma di programma politico sarà ottima cosa per la propaganda ma non significa fare politica vera e propria - e tanto meno una politica che sia diversa dalle altre politiche quanto il programma artistico e spirituale del Futurismo è diverso dagli altri programmi artistici e spirituali 129.

   Altro punto interessante per la comprensione dell'interventismo lacerbiano appare quello in cui Papini, nella Postilla, tiene a ribadire la particolarità del suo nazionalismo, che risale al 1896 130, e che preciserà ancora oltre in Perché son futurista 131; l'obbiettivo di Papini è dunque quello di «un Italia più grande dell'Italia passata, più degna del suo avvenire e del suo futuro posto nel mondo, più moderna, più avanzata, più all'avanguardia dell'altre nazioni» 132. Motivo


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che sarà ampiamente ripreso nella fase più «calda» dell'interventismo, con un'apertura a raggiera sulle possibilità e sul dovere dell'Italia non solo di restare al passo con le grandi potenze europee (soprattutto, è chiaro, con la Francia), ma di farsi guida e promotrice di un nuovo processo di sviluppo culturale e civile 133.
   Ma è con l'analisi dei «fatti di giugno» 134 che la crescente attenzione di Papini verso le problematiche politiche e sociali tocca un vertice interessante e premonitore del futuro schieramento interventista; nel luogo articolo scritto «a caldo» 135 è possibile rintracciare elementi stimolanti per la nostra analisi: Papini vuol ora valutare una espressione «diretta» e inequivocabile di quelle tendenze rivoluzionarie che erano nell'aria e che non sono più legate né ai fermenti innovativi dei futuristi, né ad una riaccensione dei «lontani» conati rivoluzionari su cui si era precedentemente soffermato. Il primo segnale del manifestarsi ormai su un piano più completo e esauriente di quella volontà di chiarificazione delle problematiche social-politiche fino a quel punto latente e in «secondo» piano, e condotta attraverso un'ottica particolarissima, è dato dall'evidente cambiamento della struttura analitica dell'articolo, più pacata, riflessiva, anche se non spoglia di cinismo 136. Qui Papini si trova a dover


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esprimere un giudizio su un episodio, «la settimana rossa», ch'egli ritiene giustamente «un problema che non è soltanto di questo mese — ma sarà di tutti i mesi per lunghi armi» 137, ed è mosso dalla volontà di comprendere l'esatto «senso di queste improvvise epilessie popolari» 138, comprendendo che non ci si trova di fronte ad un episodio sporadico di malcontento: «Qui si tratta dell'esistenza e della direzione di un paese. Siamo nella pratica fino al collo. Siamo difronte alla malattia di un regno. Sono in tavola gli interessi e i sentimenti di trentacinque milioni di esseri nati e viventi in Italia» 139.
   A Papini è chiaro il fatto di aver a che fare con un sintomo di malessere di vaste proporzioni, innanzi al quale la classe politica «non ha saputo giudicare questi fatti di giugno e tirarne fuori le domande che vi sono dentro» 140. Egli ha quindi la possibilità si sottopone ad un ulteriore bilancio quelle necessità di «rivoluzione», di cambiamento, di trasformazione che aveva già rilevato, e di sottoporre parallelamente ad un eguale giudizio il sistema «pratico» attraverso cui quelle esigenze si sono chiaramente manifestate. Per Papini la «settimana rossa» giunge come conferma di un malessere che aveva evidenziato 141. ed al tempo stesso si serve di questo sintomatico episodio per verificare ancora una volta la sua teoria dell'inutilità di un movimento rivoluzionario che non giunge sino alle estreme conseguenze 142. Ma se precedentemente si era limitato al riconoscimento di un


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mancato approfondimento dell'istinto rivoluzionario, qui, attraverso un'analisi che non manca di lucidità offre una soluzione 143 in cui, secondo l'Isnenghi «la cultura politica dell'autore mostra la propria labilità, riproponendo — quasi un pezzo prefabbricato — un programma in stile vociano-unitario di riforma e razionalizzazione del sistema, così come in altre circostanze avrebbe potuto fare ricorso, invece, a un altro pezzo del proprio sommario repertorio politico, come il programma politico futurista-nazionalista» 144.
   Affermazione che merita di essere discussa; abbiamo già avuto modo di segnalare quanto Papini ritenga superficiale il programma politico futurista, da cui chiaramente prende le distanze, pur riconoscendo il merito, ai futuristi, di allargare i confini della propria attività. E la fragilità che il nostro rivela è proprio quella di un nazionalismo «riesumato», alquanto tradizionale, che merita invece di essere rinnovato e rapportato alla situazione presente. Certo Papini in più di un'occasione, su «Lacerba», ha manifestato la propria volontà di intervenire in un discorso politico non precostituito su reali schieramenti, ma superando l'iniziale cinismo, indicare una scelta di ricerca dei mali che affliggono il paese scegliendo una analisi condotta più su un piano a lui congeniale, quello filosofico, che non può che offrire un «sommario» repertorio politico: non rientra negli interessi della rivista volta, invece, ad un'opera di «rivoluzione» che parte su un piano più interno. Il fatto poi che Papini, nell'articolo, «ritorni» per


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così dire su posizioni di marca vociana non è fatto di poco conto, se si attribuisce, come riteniamo sia giusto, alla rivista prezzoliniana un ruolo centrale nella riflessione politico-culturale di quegli anni, di ampia risonanza e nutrita di esiti particolarmente felici. Ciò che importa sottolineare è piuttosto la prontezza con cui Papini coglie il senso dell'episodio che ha sotto gli occhi, come ritrovi, ricalcando le orme della scelta espressa nella polemica con Boccioni, dopo lunghe dissacrazioni, battaglie ciniche e spietate, una più esatta misura del suo essere intellettuale all'interno di una società in trasformazione. Ha tutto il diritto, dopo aver ricercato con la vivacità che conosciamo e attraverso una analisi articolata, di compiere non una scelta di «reversibilità», ma di reale riflessione in qualche modo «costruttiva», in quanto, ricordiamo, «soltanto quando l'intelligenza sarà giunta sino in fondo alle sue negazioni potrà affermar qualcosa; soltanto quando ogni fede sarà distrutta potrà nascere la nuova certezza» 145. Ci troviamo di fronte non ad un primo episodio di «trasformismo», ma piuttosto al termine, che è al tempo medesimo l'avvio, di una singolare riflessione di voluto smantellamento in vista di una scelta chiarificatrice in cui l'intellettuale possa ritrovare un ruolo, il suo ruolo, più consapevole, dopo aver sperimentato altre strade avvincenti che gli si presentavano innanzi e che meritavano di essere esplorate per non aver dubbi, incertezze.
   Merita anche un doveroso approfondimento il lungo inciso papiniano, nell'articolo, sulla «teppa» che «potrebbe», sempre seguendo Isnenghi, «esprimere un qualche potenziale distacco dall'area ideologica che era stata quella abitualmente frequentata dai «dioscuri» fiorentini fin dai tempi dei confronti con Pareto e con Mosca sulle pagine di «Leonardo» e del «Regno». Per Papini, del resto, non mancano i precedenti» 146.


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   C'è innanzi tutto da dire che Papini si «occupa» nell'articolo della «teppa» più per respingere alcune conclusioni espresse in quei giorni sulla «settimana rossa» che volevano «la teppa» causa principale dei disordini, che per un riconoscimento che autorizzi l'ipotesi di «un potenziale distacco».
   Riconosce semplicemente che «tutte le rivoluzioni [...] hanno avuto bisogno della 'teppa' [...] per vincere, aggiungendo però che ciò che è accaduto in Italia in quei giorni di giugno va ben al dì là, è ben più grave «della `miscredenza' dei preti, la 'teppa' dei giornalisti o 'la sobillazione sovversiva' dei nazionalisti». 147.
   Se è possibile riconoscere che in più punti, in «Lacerba», il nostro si fosse servito del termine «teppista» «in funzione provocatoria parlando di se stesso e dell'orientamento psicologico e culturale scissionista» 148, va al tempo stesso riconosciuto che esso subisce una utilizzazione appunto prettamente provocatoria, come ulteriore segnale del cinismo dissacratore, senza regole morali, pronto all'azione; l'identica funzione è possibile riscontrare, in ambito futurista, nei continui riferimenti, soprattutto all'avvio del movimento, del termine «pazzo», «pazzia», «follia» vista come forza di perdizione, come «fantasia creatrice di visioni e di incubi» 149.
   Piuttosto ci sembra il caso di segnalare quanto questo atteggiamento di «teppismo» pervenga a singolari esiti sul piano letterario, alimentato com'è da un interesse, in questo senso, della matrice «toscana» della rivista.
   Riteniamo quindi che il teppismo papiniano vada adeguatamente confrontato con gli interventi dialettali a lor modo folklorici e «beceri» di Rosai, alla ventata pratese di Binazzi, ai componimenti futuristi-toscaneggianti di Bellini, sino all'ironica, scanzonata e divertita poesia e prosa palazzeschiana. Come non segnalare la presenza metodica nel


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Giornale di bordo sofficiano delle «Giubbe rosse», di alcuni quadri di vita fiorentina, di riferimenti continui al mondo di quei giorni e di quella terra? Il «teppismo» papiniano, senz'altro volutamente e inevitabilmente proclamato data la necessità di una dissacrazione senza confini, non appartiene anche alla storia culturale, popolare, poi, in anni a venire, «tradizionale», della cultura toscana?
   Resta possibile quindi ricercare in «Lacerba» gli anelli di una concatenazione con esperienze culturali, filosofiche, politiche di quegli anni del nostro primo novecento, così ricchi di difformazioni, di ricerche, di istanze spirituali e ideologiche; in particolar modo, per quella distanza iniziale e fondamentale nella storia della rivista dalla «certezza» e dall'ottimismo dell'idealismo, la congiunzione si mostra particolarmente diretta verso «un tema culturalmente e socialmente così innervato nell'Europa della guerra: la crisi del senso d'identità» 150.
   Ciò consente di valutare su un piano più pacato e oggettivo le resultanti papiniane (e sofficiane) di quella crisi, da cui entrambi gli intellettuali «escono», con esiti simili, attraverso l'esperienza della guerra che segna uno spartiacque netto nella storia culturale del nostro paese.
   Particolarmente felice appare l'accostamento, nel numero che precede di poco la svolta politica di «Lacerba», di due lunghi e sintomatici articoli di Soffici e Papini incentrati proprio sul tema della conoscenza e dell'identità. In Raggio 151, partendo da un motivo tutto legato alla ricerca figurativa, Soffici si sofferma attraverso stringate intuizioni sulla «conoscenza» che «è una formazione di stati della sensibilità con elementi sempre presenti e contemporanei» 152. Questa particolare sensibilità consente, per Soffici, un collegamento con i luoghi e tutte le parti dell'universo attraverso «la continuità inimitabile della


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materia vivente» 153, e con tutta la noria dell'universo attraverso la «continuità interrompibile della vita della materia» 154. Tanto che Soffici ritiene di poter affermare che «sono consostanziale a tutte le parti, confluente al passato e futuro» 155. «Vivere, significa prender conoscenza del tutto che vi è connaturato» 156. La conoscenza e l'intuizione trovano nell'artista un profeta privilegiato, in cui gli nati della «sensibilità — coscienza» 157 subiscono cambiamenti prepotenti ed eccezionali» 158. E conclude affermando che la sua coscienza, «un globo di luce che saetta i suoi raggi tutt'intorno secondo la forza che le è propria» 159, fa sì che «tutto è virtualmente in me. Io sono il punto di confluenza della storia e del mondo. Io sono con l'eternità e con l'infinito» 160.
   L'identico, orgoglioso riconoscimento di una sensibilità innata e particolare è contenuto nel lungo «sfogo» papiniano volto a confessare apertamente la propria singolare volubilità 161. L'articolo si chiude con una confessione aperta della incapacità di Papini a concordare con «tutte le dottrine ferme» «tutti i movimenti immobili, tutte le opinioni stabili e tutti i sistemi e tutte le coerenze» 162. Papini riconosce e esalta il proprio «camaleontismo 163 sottolineando al tempo medesimo che «il genio supremo della volubilità» 164 si


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manifesta in lui per la singolare immedesimazione con il «mondo».

   «C'è una gara fra me e lui. Io sono il mondo perché il mondo è in me. Tutto quello che passa nelle sue sfere vien riflesso nei miei stati d'animo. Ma io n'esprimo qualcuno soltanto col movimento della parola. E mi sento trasportato da un transatlantico attraverso tutti gli arcipelaghi della morgana sensibilità» 165

   Dichiarazioni queste che permettono di sottolineare i motivi «comuni» con la teoria futurista, rapportando la proposta culturale di «Lacerba» alle ricerche filosofiche, e agli esiti di queste, di ambito europeo, nei primi anni del secolo.
   La svolta politica del '14 e quella successiva che vede Papini, dal 3 gennaio 1915, direttore della rivista, in nome di una guerra che non è «soltanto di fucili e di navi, ma anche di cultura e di civiltà» 166, conduce la rivista ad un'opera di raccolta, e di lavoro, di elementi più tradizionalmente «italiani», condotta attraverso un continuo interscambio con le forze più vive e originali della cultura francese. Conclusa la fase del cinismo dissacratore, sul piano etico e culturale, e indirizzando la lucida energia verso un più equilibrato rapporto con la società e con le personali esigenze intellettuali, «Lacerba» nell'ultimo squarcio del '15 si avvia verso l'appuntamento, voluto e cercato , con la guerra: «Questo non è un addio ma una pausa e una sosta» 167. Ma gli uomini di «Lacerba» che usciranno da quella tremenda esperienza non potranno più ricongiungere i fili del discorso interrotto.


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